“Siamo giunti al presupposto paradossale e parossistico, di vanto e di tolleranza nei confronti di uno stile di vita alienato, che viene riduttivamente definito stressato”

— Roberto Bernini

Ma cos’è questo stress?

Per quanto sia diventato il nostro pericolo pubblico numero uno, parlare di stress in modo compiuto, oggi è quasi impossibile. Per due motivi.  Il primo è dovuto alla grave divergenza riscontrabile tra i risultati delle ricerche effettuate in merito, il secondo riguarda il mutamento semantico che il termine ha subito. Iniziamo dal calderone dei dati che vengono forniti.

Il Rapporto Eurispes parla del 41% dei lavoratori italiani sofferenti di stress, mentre invece secondo l’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro lo stress colpisce un lavoratore su cinque, per l’esattezza il 22%, ed è la causa della metà della giornate lavorative perse, con un costo economico, in Europa, annuo di 20 miliardi di euro.  Il Centro Benessere Psicologico asserisce d'altro canto che sommando i dati delle malattie cardiovascolari, tumori, broncopneumopatie croniche ostruttive, cirrosi epatica, malattie intestinali (tutti problemi che vedono lo stress come una delle loro cause principali) si evince che sette italiani su dieci muoiono per patologie legate allo stress. Secondo un gruppo di ricercatori della Harvard University e della Stanford University, un ambiente di lavoro ostile e stressante può ridurre la nostra aspettativa di vita di 33 anni, cifra che si ridurrebbe per determinate categorie sociali.

Come se non bastasse, i ricercatori della Amsterdam University hanno presentato i risultati del lavoro sul  Tecno-stress, un gruppo di disturbi derivanti dal sovraccarico di informazioni dovuti all'esigenza di rimanere connessi, attraverso le nuove tecnologie (smartphone, tablet, ecc.): dai risultati è emerso che il 50% dei lavoratori ritiene che il proprio ritmo di lavoro è dettato dal computer o attrezzature e il 55% degli intervistati ha riscontrato nell'uso degli strumenti elettronici, un forte fattore di stress. Il quadro che emerge oltre che drammatico è piuttosto confuso e fuorviante. In merito alla deriva terminologica, è ormai evidente invece, come il termine “stress” venga utilizzato quotidianamente in modo diffuso anche nel linguaggio corrente, talvolta in modo improprio o con significati contrastanti.

In natura, lo stress è un paragonabile a un campanello di allarme che induce l’organismo a uno stato di difesa per fronteggiare un pericolo imminente.

Con il tempo si è visto, stravolgere il suo reale significato e, nonostante sia diventata un’espressione quasi di moda, in realtà non è altro che una precisa condizione psico-fisica definita “Sindrome generale di adattamento”.  Le inumane condizioni odierne alle quali siamo sottoposti o che talvolta prediligiamo, favoriscono l’attivazione  di questa modalità di adattamento che protratta, nostro malgrado, in modo improprio ed eccessivo rappresenta una delle prime cause di malattia. Ulcera gastrica, colite, depressione, stati di ansia e altre manifestazioni psicosomatiche, su tutte la sindrome di burn-out, non sono altro che il risultato di una prolungata esposizione a condizioni di stress. Ma tutto questo non fa più notizia. Del resto, oggigiorno essere sotto stress o lavorare sotto stress è diventata una condizione socialmente condivisa e accettata. Anzi, ha quasi assunto i connotati di un requisito meritorio. Siamo giunti al presupposto paradossale e parossistico, di vanto e di tolleranza nei confronti di uno stile di vita alienato, che viene riduttivamente definito “stressato”. Nonostante l’esperienza dello stress sul lavoro abbia delle conseguenze indesiderate per la salute e la sicurezza degli individui, il trend rimane invariato. Evidentemente abbiamo perduto o dimenticato il vero significato del termine che indica una condizione temporanea di forte allerta.

Lo stress infatti, non è altro che la nostra risposta adattiva a una specifica richiesta dell’ambiente esterno. In natura, lo stress è un paragonabile a un campanello di allarme che induce l’organismo a uno stato di difesa per fronteggiare un particolare evento. La situazione di grave pericolo imminente che innesca quella serie di risposte fisiologiche come aumento dei battiti cardiaci, innalzamento della temperatura corporea, maggior produzione di adrenalina, è necessaria per prepararci alle due uniche condizioni comportamentali conosciute dai nostri pro genitori comuni per poter vivere, ma soprattutto sopravvivere in un ambiente ricco di minacce: la lotta e la fuga. Cercare di procurarsi una preda per poter mangiare, evitare di essere catturati da un predatore, combattere contro eventuali antagonisti. Superato il pericolo, i nostri antenati potevano però ritornare a una condizione omeostatica più consona. Con questa funzionalità fummo concepiti.

Lo stress era una risorsa adattiva che consentiva una più probabile sopravvivenza della specie umana.

Abbiamo imparato a convivere con lo stress, reputandoci idonei a superare indenni i perniciosi effetti collaterali scatenati da una prolungata esposizione al fenomeno.

Cosa è successo allora? Con il tempo la situazione ci è sfuggita di mano, ci siamo adagiati a una condizione irrazionale che spesso si sottrae al buon senso. L’uomo (prevalentemente quello occidentale) ha trasformato la sua condizione di stress da temporanea a stabile. Con la sola differenza che lo stress ricopre come allora, una funzione di utilità, unicamente, per fronteggiare situazioni episodiche come un lutto o un trasloco. Purtroppo l’azione alla quale l’individuo deve prepararsi oggi non ricopre più un’estensione temporale limitata. Abbiamo imparato a convivere con lo stress, reputandoci idonei a superare indenni i perniciosi effetti collaterali scatenati da una prolungata esposizione al fenomeno. Eccezion fatta, per impegni e/o incombenze ineluttabili, casi in cui lo stress ricopre un ruolo adattivo ego-sintonico di cui ciascuno beneficia, non dobbiamo più prepararci a combattere contro belve feroci. Il pericolo proveniente dalle richieste ambientali, generalmente, per non dire sempre, è rappresentato dagli impegni di carattere lavorativo e professionale, ai quali dobbiamo far fronte. Il “lavoro” è diventato una fonte di rischio. Secondo i dati dell’ Inail, il lavoratore più stressato è l'autista d'autobus, ma non se la passerebbero molto meglio pompieri, tassisti e chirurghi. Ormai non ci meravigliamo più quando, parlando con amici o conoscenti, sentiamo di periodi di stress lavorativo che durano da anni.

Grazie a Selye, lo studioso che per primo iniziò a studiare questo fenomeno, oltre ad aver appreso che lo stress è articolato in tre fasi, abbiamo imparato che associata a ciascuna di essa esistono pericolosi effetti collaterali. Durante la prima fase “di allarme” l'equilibrio interno dell'organismo (omeostasi) viene improvvisamente esposto a nuovi stimoli e subisce una modificazione caratterizzata da una risposta emotiva soggettiva. Questa fase è  sostenuta dall'azione della adrenalina e della noradrenalina che attivano una serie di reazioni tra cui iperventilazione, aumento della secrezione endocrina e della pressione sanguigna, rilassamento gastrointestinale, dilatazione dei bronchi aumento della frequenza cardiaca e del volume sistolico. Il punto è che queste due sostanze (adrenalina e noradrenalina) vengono prodotte e rilasciate velocemente nel nostro organismo per fronteggiare un pericolo imminente e altrettanto rapidamente vengono, o dovrebbero essere, riassorbite da questo, poiché un individuo non può restare con dei valori endocrini così alti. Difatti a rendere deleterio un eventuale episodio stressogeno, più che la qualità, sono significativi la quantità e la durata.

La seconda fase è quella detta “di resistenza”. Durante questa fase l'organismo si organizza anatomo-funzionalmente in senso difensivo e grazie a questa risposta riusciamo a fronteggiare l’allarme iniziale. È durante questa fase che vengono secreti  i corticoidi tra cui il cortisolo, elemento presente nel sangue e responsabile della degenerazione dell’organismo, la cui conseguenza principale è la riduzione delle difese immunitarie.

La terza e ultima fase è quella chiamata “di esaurimento” grazie alla quale i valori di funzionalità ritornano entro i parametri standard. Durante questa fase un individuo non è in grado di fronteggiare una nuova situazione di stress, che nell'eventualità si dovesse presentare implicherebbe una caduta delle risorse difensive.

Lo stress si manifesta su tre livelli: cognitivo, comportamentale e fisico.

I sintomi fisici includono emicrania, problemi digestivi, stanchezza, irritabilità, sudorazione e tensione muscolare. A livello comportamentale, si possono avere abitudini compulsive, nervosismo eccessivo. I sintomi cognitivi comprendono preoccupazione costante, difficoltà di concentrazione e disorganizzazione. Esistono vari tipi di stress: periodico, da eventi unici negativi o gravi eventi minacciosi, che possono portare al disturbo post-traumatico da stress.

La domanda è: "Cosa possiamo fare?"

Partendo dal presupposto che l’unico tipo di stress sul quale possiamo intervenire sia quello periodico, non potendo impedire, arginare, contenere o prevenire le cause scatenanti gli altri tipi di stress, dobbiamo focalizzarci sul nostro stile di vita, per cercare di capire dov'è che possiamo agire. Il nostro fisico, sollecitato agli agenti stressogeni, risponde e continuerà a rispondere sempre secondo le manifestazioni descritte. Non potendo modificarle, possiamo solamente decidere di intervenire sull'ambiente esterno. Poiché ciò che innesca lo stress sono le aspettative ambientali, quando eccedono le capacità dell'individuo nel fronteggiare tali richieste, sono proprio queste che dobbiamo imparare a ridurre. In termini semplicistici, ma non riduttivi, dobbiamo iniziare a “dire di no”. Per quanto la nostra volontà, la nostra bulimia, la nostra ambizione ci spingano ad accettare sfide, soprattutto lavorative,  con cui confrontarci, è preferibile assumere un atteggiamento, non rinunciatario, quanto piuttosto realistico.

Se gli obiettivi di fare carriera, produrre denaro e costruire ricchezza, che deliberatamente ci poniamo, mal si coniugano con il nostro benessere fisico e mentale, forse è il caso di accettare l’onorevole possibilità della rinuncia. In ultima analisi non si tratta altro che imparare a conoscere i nostri limiti e ad accettarli. Se accettando un nuovo incarico o un altro cliente, supereremmo quel limite, quanto meno dovremmo essere consapevoli a cosa stiamo andando incontro. Benché in inglese questi due termini (ansia e angoscia) vengano tradotti con la stessa locuzione anxiety , possiamo avventurarci in una distinzione concettuale, presente nella nostra lingua.

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