Il futuro appartiene a chi crede nella bellezza dei propri sogni

— Eleanor Roosevelt

Il Cambiamento

L’errore più frequente e macroscopico che facciamo è quello di convincerci di avere ragione. Di essere nel giusto. E chi è quel folle che desidererebbe cambiare avendo ragione? Prima o poi però dobbiamo fare i conti con noi stessi e con i nostri spaventosi sentimenti di ambivalenza.

“Siamo noi i migliori medici di noi stessi”.

Ma come un bravo chirurgo, da solo, non può operarsi al cervello, la nostra volontà, da sola, non è sufficiente per conseguire il cambiamento. Cambiamento è sicuramente il termine che meglio di ogni altro descrive e identifica il percorso che attende chi decide di intraprendere l’avventura terapeutica. L’obiettivo del cambiamento rappresenta, nel nostro lavoro, il faro illuminante che dobbiamo seguire e inseguire per ottenere ciò che desideriamo e liberarci di ciò che detestiamo. Il lavoro terapeutico si pone come obiettivo proprio il cambiamento di quelle presenze dentro o fuori di noi con le quali non vogliamo più convivere. Al tempo stesso però, l’analista evita accuratamente di indirizzare il paziente verso uno specifico traguardo: egli non cerca di cambiare nulla. Evitando di assumere qualsiasi attegiamento direttivo che lenirebbe l’autonomia del paziente. Anche se spesso non ci reputiamo capaci, tutti noi siamo in grado di ottenere quei risultati utili a poterci sentire una persona migliore. Non essere soddisfatti della propria condizione non è sinonimo di fallimento, lo sarebbe rassegnarsi all’idea che le cose non possono essere cambiate.

“Stupidità significa fare e rifare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi.”

— Albert Einstein

Riuscendo ad abbandonare quei comportamenti, quelle idee fisse, quei pregiudizi che condizionano le nostre giornate, possiamo cambiare il punto di vista attraverso il quale ci siamo sempre osservati e purtroppo giudicati. È sicuramente sconveniente, talvolta inappropriato e forse anche doloroso ammettere che le scelte che avevamo adottato tanto tempo fa non hanno funzionato. E se le nostre scelte ci hanno condotto a un traguardo che non ci piace, che non desideravamo, è forse il caso di domandarci qual’è il reale motivo che ci ha fatto intraprendere quella strada. Ciò significherebbe rimettere tutto in discussione e rendersi conto che ci siamo sbagliati. E serve tanto coraggio per prendere una decisione come questa.

Ma non è mai troppo tardi.

La Figura dello Psicoterapeuta

Ancora oggi, nel 21° secolo, in Italia, la maggior parte delle persone è preoccupata di quello che si dirà di loro quando si verrà a sapere che si sono rivolte a uno psicologo.

L'alone di diffidenza che circonda ancora oggi la nostra professione, fa sì che le persone continuino a considerarci degli strizzacervelli. Ma perchè chiedere aiuto a uno psicologo?

Possono essere molte le ragioni per cui desideriamo rivolgerci a un terapeuta: problemi relazionali, scarsa autostima, attacchi di panico, etc, ma sempre uno è l'obiettivo per cui ci mettiamo nelle mani di un estraneo e cioè affrancarci da una condizione di disagio.

La legittima difficoltà di affidarsi ad uno sconosciuto, spesso riconducibili alla vergogna, è purtroppo spesso l'ostacolo che impedisce di affrontare e risolvere i problemi. Inoltre chi si rivolge a uno psicoterapeuta spesso non conosce le cause dei propri malesseri, ma porta e sopporta il peso dei loro sintomi. Al centro del processo terapeutico esiste il paziente, e la sua unicità, che partecipando in modo attivo e lucido si rende protagonista del proprio cambiamento. Durante il percorso terapeutico vengono affrontate vecchie e nuove avversità. Alcune tristemente note, altre sconosciute emergeranno lungo la strada. Entrambe gli ostacoli impediscono l’emersione della vera personalità del paziente e la completa realizzazione delle proprie potenzialità.

Quello del terapeuta non è lavoro che si fa o un mestiere che si svolge.

Essere uno psicoterapeuta significa svolgere la professione avendo il benessere del paziente come obiettivo prioritario. Il bello della nostra professione è che il rapporto con il paziente non si esaurisce con lo scadere dell'ora, ma viene alimentato per tutto il tempo che intercorre fino alla seduta successiva. Nel nostro lavoro non si chiude mai “bottega”. La relazione instaurata è rivista e rivisitata in continuazione. Capita talvolta di andare a rileggersi un articolo o consultare un paragrafo di un libro letto anni prima, perché esprimono in maniera precisa la situazione vissuta in una particolare seduta. Altresì può succedere che durante una seduta terapeutica si crei un qualcosa che vada a coincidere perfettamente con la traccia di una lettura vivendo così l'impressione che l'autore di quel testo abbia descritto perfettamente quella particolare condizione affrontata con quel paziente. Non inventiamo niente e non guariamo nessuno, ma offriamo la possibilità a chi lo desidera di riconquistare e riappropriarsi della propria esistenza, evitando di arrendersi alle difficoltà e riuscire a depotenziare, una volta per tutte il passato con tutta la negatività che si porta dietro.

In altre parole accettare se stessi e gli altri.

Siamo noi gli unici responsabili della nostra felicità. Anzi, per utilizzare le parole di Pogo, l’opossum dei famosi fumetti:
“Abbiamo incontrato il nemico e siamo noi!”

In queste situazioni di smarrimento o sofferenza, un professionista può aiutare a ritrovare la “giusta rotta”, a riacquistare lucidità e serenità e risvegliare risorse personali che sembravano congelate oltre a scoprire qualità che non si credeva possedere.

Non possiamo continuare per l'eternità ad accusare gli altri dei nostri fallimenti e scaricare su di loro le responsabilità. Nella nostra corsa verso il successo o la sopravvivenza, a seconda del momento in cui ci troviamo, colpevolizzare gli altri, genitori in primis, è il più semplice e comodo di tutti gli alibi che possiamo utilizzare. Prima o poi però per tutti giunge il momento di fare i conti con se stessi, con la propria natura con le cause che ci hanno portato dove siamo arrivati, seguendo le nostre convinzioni, le nostre certezze. E se non avessimo avuto sempre ragione? E se ci fossimo sbagliati? Dovremmo forse prendere in considerazione la possiblità che le nostre linee guida non erano quelle giuste? O che comunque non ci hanno portato dove volevamo arrivare? Sarebbe forse il caso di rivedere le nostre certezze, le nostre convinzioni, quelle che la psicologia cognitiva definisce le “false credenze”. Non necessariamente sono sbagliate, piuttosto non funzionano più.

“Subire le cose è più semplice che non risolverle”.

— Bert Hellinger

Vecchie strategie erano probabilmente funzionali un tempo, poi le condizioni attorno a noi sono cambiate. Non siamo stati sufficientemente attenti e pronti però per modificarle o sostituirle con altre più funzionali. Darwin sosteneva che l’adattamento è una condizione imprescindibile per la nostra sopravvivenza. La mancanza di questa abilità genera la nascita di disturbi psichici e non solo. E da questa scomoda condizione di disagio nessuno verrà a salvarci. La realtà spesso dura e scomoda, talvolta può apparire come un ostacolo insormontabile, ma non è certo evitandola che riusciremo a risolverla. La psicoterapia può fare molto per aiutare ad affrontare le asperità della vita, ma non può fare tutto. Il lavoro più difficile che ciascuna persona desiderosa di intraprendere un percorso psico-terapeutico deve affrontare è quello di assumersi le proprie responsabilità. Tralasciando le colpe proprie e degli altri e abbandonando concetti come giusto e sbagliato. Tutto quello che abbiamo vissuto, è successo perchè non poteva andare diversamente. La strada, con tutti gli errori e i danni che ha comportato, che abbiamo intrapreso era l’unica e la migliore che potevamo seguire. Valutarci e sopratutto giudicarci con il senno del poi è uno dei due più grossi danni che ci possiamo infliggere. L’altro potrebbe essere quello di lasciare che le cose restino così come sono e non fare niente per dare una svolta alla nostra esistenza.